Il Country, non è solo un cappello da Cowboy


Al Bluebird di Nashville, il locale country più rinomato della città, la musica passa ancora dai racconti della tradizione orale. I musicisti non stanno su un palco: a volte c’è un tema comune, a volte s’ispirano a vicenda. Un cantante magrolino cinquantenne dedica una canzone al fratello, che giocava a football con Elvis, ma lui non l’ha mai conosciuto bene perché è nato molto dopo. Un’altra canta di Lucille, la sua nonna in Kentucky, della sua infanzia piena di difficoltà, di come si è innamorata del marito a 13 anni e si sono scritti lettere romantiche per una decade. Lucille era nata in «una piccola città addormentata di minatori di carbone».
 

Quello stesso Kentucky di Sarah Ogan Gunning, una cantante socialista del 1910, figlia di uno dei fondatori della United Mine Workers of America, la prima a trasformare al femminile il canto popolare I am a man of Constant Sorrow Nella sua versione si parla di minatori che non hanno un letto dove dormire. Il coal country, la parte dell’America con le miniere di carbone, metafora di qualsiasi analisi politica degli ultimi mesi, è ormai agli sgoccioli. Offre solo 50mila posti lavoro ma rimane legato a una delle promesse più cruciali di Trump.
 

Trump ha infatti aperto la prima nuova miniera di carbone nel 2017 in Pennsylvania, circondato da 200 minatori. Eppure, anche senza immaginare un’utopia di mulini a vento e pannelli solari, anche dopo l’uscita dall’Accordo di Parigi, tutti sanno che il futuro non passa dal carbone e le nuove energie equivalgono a milioni di posti di lavoro. Trump vicino al cantiere evoca più l’immagine di un anziano spaesato, ma anche di canzoni che lui non ha mai ascoltato, di un country che per Melania sarebbe solo un cappello da cowboy di marca. E’ un ultimo canto del cigno nel nome di un’illusione nazionalista? Forse sì, forse no, ma è prima di tutto un canto.
 

Nel 2017 il country ha cambiato connotati ma rimane il veicolo per cantautori di storie complesse, personaggi e temi tutt’altro che ignoranti: non è solo il folk di protesta di Pete Seeger, né gli inni patriottici, a birra e bandiere dei Brooks &Dunn, né solo le ballate melodrammatiche di alcool, sesso e tradimenti. È soprattutto una raccolta di short stories, vicino allo spirito di campagna, quello di Pavese. Raccoglie anche migliaia di canzoni sulle miniere di carbone che hanno dato voce ai primi sindacati di sinistra, le prime rivoluzioni, hanno fatto da catarsi dopo tragedie, ma hanno anche rassicurato un mondo diffidente verso il progresso: Coal Miner’s Blues, Hard times in Coleman’s mine, Dream of a miner’s child, Busted cantata pure da Johnny Cash, l’inno Take Me Home Country Roads di John Denver parla della contea della West Virginia come Miners’ lady, la donna dei minatori.
 

Anche in Italia alcuni elementi di questo sotto-genere country si sono inspiegabilmente inseriti in canzoni come Miniera delle gemelle Nete, due cantanti piemontesi che narrano di un incendio che lascia intrappolati gli uomini, mentre «piangono bimbi, spose, sorelle e mamme» fino a che un giovane immigrato del Sud, «dal volto bruno», li salva, sacrificandosi. Negli Usa il minatore non è mai un Ubermensch della Vecchia America, ma una figura struggente tra malattie, incidenti tragici e anche, ironicamente, cambiamenti ambientali. In Dark as a Dungeon il sangue diventa nero e il desiderio è quello di non tornare mai più a lavorare sotto terra. 
 

I cantanti country più famosi oggi sono uomini giovani, sexy, con la voce profonda come De Andrè, ma un look da modelli. Quelli che emergono alla luce del sole sono più l’esempio del Sud classico, noto per l’ospitalità e i valori d’altri tempi (con qualche eccezione più bigotta). Quelli «sotto terra» sono invece in una regione immaginaria denominata dai giornalisti Appalachia, dove le famiglie vivono ignorando le regole dello Stato con uno stile di vita tra l’anarchico, il selvaggio, con soprannomi pittoreschi, legami tribali, capifamiglia e matriarche con il banjo.
 

Dall’estero spesso ci si ferma agli stereotipi, agli Honky-tonk in Texas, si attribuisce una certa ingenuità al genere. Per certi aspetti (anche se poi si mischia a blues, folk, bluegrass, soul, rock, pop) a volte è vero che il country ha delle melodie semplici confortanti ma è nelle parole che diventa profondamente umano e meno definibile. Alcuni artisti country degli anni 2000 cercano di risolvere il razzismo in modo un po’ goffo come in Accidental racist, A.A. Bondy canta in American Hearts di un’unità tra fratelli, di un passato americano complesso. Alan Jackson, tutt’altro che di sinistra, cantò il dolore dell’11 settembre in Where were you when the world stopped turning? con sfumature umane che politici come Steve Bannon si sognerebbero.
 

Anche i gruppi bluegrass hipster nascono in un certo senso dalle miniere. Southern Gentleman di Luke Bryan è l’inno all’uomo perbene, che apre la porta con galanteria, che cucina una cena per la sua donna, che è rispettoso e non violento. Trump, con i suoi fuorionda volgari sulle parti intime delle donne ne è l’antitesi. Non è una canzone impegnata, ma ha un messaggio più diretto di quelli di Katie Perry o Lady Gaga, che si fanno portavoce del femminismo. È uno i quei rari casi, dove una canzone che nasce da un contesto più tradizionalista può influenzare dei ragazzi più di una pubblicità progresso sulle violenze sessuali. O Humble and Kind che invita a non mentire, non tradire e non rubare.
 

È tra un accordo e l’altro che si sono persi i coordinatori di campagne politiche. Il country non è una teoria socioeconomica, ma una vecchia lettera ritrovata in un cassetto di una nonna scappata dalla guerra come i rifugiati di oggi. Molti canti delle miniere sono pro minatori ma contro le compagnie di carbone, contro lo Stato. C’è voglia di nazionalismo? In Southern Comfort Zone, un giovane teme di andare via dal mondo che lo ha cresciuto, ma si spinge oltre, cammina per le strade di Roma, va a a Parigi, bacia una donna della West Coast sotto le stelle del Nord Europa. 
 

In Die a Happy man di Thomas Rhett un idolo delle ragazzine, invece si dice contento di stare con la sua donna, anche se non riuscisse a vedere mai la Torre Eiffel. Ci sono cantanti country neri e altri che temono il diverso. In America chiudono i grandi magazzini uccisi dall’e-commerce, ma forse anche grazie a uno stile di vita più sano; carbone e petrolio si vedono nei film e un giovane cattolico con una chitarra canterà ancora Three Wooden Crosses, dove si difende una prostituta o Living in the promised land che accoglie gli immigrati. 
 

People loving people di Garth Brooks non è innovativa musicalmente ma sembra un manifesto hippy, un messaggio d’amore che non esclude i diversi, cerca di capire questo miscuglio di culture moderne e nomina Aristotele… Il trucco nel vero country è quello di usare la specificità. Lo diceva persino Taylor Swift a 15 anni. Certo il country-pop ha quattro accordi e molto buonismo, ma fuori dalla radio rincorre storie sconosciute. Lo scopo non è far identificare a tutti i costi, ma descrivere il legno di una sedia del proprio nonno, una foto in bianco e nero del 1935, una vacanza in cui si incontra una donna più grande coi capelli neri, in una fattoria, una buffa proposta di matrimonio. Il country odia i discorsi retorici, ma anche le frasi senza senso e non troverebbe mai rime per covfefe…e guarda a quella miniera in Pennsylvania come una storia tramandata tante volte, fatta di qualche bagliore di luce, ma anche tanto buio.  

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BENEDETTA GRASSO
NEW YORK
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