Nativi delle Praterie: Cavalli e Bisonti. Tradizioni, usi e danze


Quando gli indiani del Sudovest videro per la prima volta i cavalli di Coronado, ne furono spaventati e crebbero che gli spagnoli che li montavano fossero dei mostri, con testa e tronco umani e quattro zampe d’animale.

Per tutte le pianure si sparse la voce che quegli esseri spaventosi divoravano la gente, anche se tali credenze non durarono a lungo. Pochi anni dopo l’arrivo dei primi esemplari, i cavalli iniziarono ad essere considerati animali sacri inviati dagli dei per il bene degli uomini.
Alcune tribù li introdussero nei loro villaggi coprendo di panni il suolo che calpestavano. Dal momento che non esisteva un nome per il cavallo, dovettero inventarne uno. La parola cane era usata molto spesso, perciò dapprima definirono il cavallo «il grande cane dell’uomo bianco». I Sioux usarono le parole sunka wakan, ossia «cani misteriosi» e i Piedi Neri «cani daini». All’inizio i cavalli vennero impiegati proprio come fossero grandi cani, ossia come.. bestie da traino per i carichi più pesanti, mentre i cani erano usati per i più leggeri.
Prima dell’arrivo dei cavalli, i bisonti erano cacciati con diverse tecniche.
Una delle leggende più famose, narra che gli indiani cercavano di ucciderli spingendoli giù da alti dirupi per poi ripulirne la carcassa della pelle e della carne. Questo metodo veniva a volte usato anche daiCrow, dai Piedi Neri e da altre tribù che vivevano alle pendici delle Montagne Rocciose, dove non mancavano precipizi adatti. Questi precipizi sono definiti BUFFALO JUMP. Il WAHKPA CHU’GUN ARCHAEOLOGY SITE ad Havre, nel Montana è uno dei luoghi preservati al meglio e mostra un tipico Buffalo Jump delle praterie. Durante la visita, si può vedere l’estensione del campo ed il deposito a varie profondità, fino a sei metri. I reperti sono dislocati in tutto il sito in caseggiati riparati con il vetro. La stagione di visita va da Luglio fino al Labor Day ed il tour guidato richiede almeno un’ora. (www.buffalojump.org)
Un altro sito archeologico considerato il più grande buffalo cliff jump del Nord America, si trova a Ulm, nel Montana. L’Ulm Pishkum State Park offre un percorso interpretativo e comodità per picnic, oltre ad una mandria di prairie dog dalla coda nera, protetta. Nell’intento di rendere omaggio al bisonte ed alle genti che onorano questo mansueto animale, il parco ha anche un centro educativo. Si può dire che degli oltre 300 buffalo jump del Montana, quello di Ulm è molto speciale, nel suo genere. Il centro offre esposizioni sui bisonti, un circolo per storyteller, una classe e una libreria. All’esterno è predisposta un’area per Powwow e dimostrazioni. La parola ULM è un nome irlandese; Pishkun è una parola dei Piedi Neri e significa “deep blood kettle”. Il sito era usato dai Nativi per almeno 2000 anni prima dell’arrivo di Lewis e Clark. Il luogo consiste di una scogliera sabbiosa di 1700 metri circa: ci sono impronte di percorsi in cima al dirupo e resti di milioni di animali e bisonti, uccisi e trattati, in fondo al dirupo. (www.fwp.state.mt.us )
Negli spazi aperti delle ampie vallate, invece, non era facile trovare una mandria in prossimità di un burrone. Il metodo usato più comunemente era quello di isolare alcuni animali appartenenti a una mandria con l’aiuto di numerosi cacciatori e tentare di ucciderne il maggior numero possibile prima che questi potessero fuggire. Alcune tribù nelle pianure settentrionali misero a punto una trappola che consisteva nell’accatastare rocce e travi in modo da formare una V, ossia un tunnel all’interno del quale si poteva spingere l’animale per
sopprimerlo.
Gli Assiniboin catturavano i bisonti costruendo arene circolari di legno e lasciando aperto solo un piccolo pertugio largo quanto un bisonte. «Quando i cacciatori avvertivano la vicinanza di un bisonte, andavano verso l’animale e, imitando il verso del vitello, muggendo e sventolando un pezzo di pelle, cercavano in tutti i modi di attirarlo verso di loro.» Normalmente il bisonte, di natura curiosa, iniziava a seguire il cacciatore che camminava a quattro zampe verso il recinto e cadeva così nel tranello.

I cavalli arrivarono nelle pianure del Texas, abitate dai Com’anche, solo un secolo dopo che i soldati di Coronado avevano stupito le tribù del Sud con i loro esemplari. Molti cavalli venivano dal Nuovo Messico, il centro degli insediamenti spagnoli, forse perché erano fuggiti o perché erano stati rubati. Altri animali provenivano dal Messico settentrionale, dove erano concentrate le fattorie degli spagnoli, i quali impedivano agli indiani di montare gli animali. Alcuni, tuttavia, lo facevano ugualmente, anche da prima dell’arrivo dei Comanche.

Sin dal 700 i mercanti soprannominati «Comancheros» che venivano dal Messico iniziarono ad attraversare le pianure per andare a vendere cavalli ai Comanche, in cambio di pelli di bisonte ed altri oggetti. Verso la metà dell’800 i Comanche avevano così tanti cavalli che cominciarono ad usarli come merce di scambio per acquistare pistole e beni di vario genere.
Per un secolo i Comanche si diedero da fare per portare i cavalli alle tribù che vivevano a nord. Ancora prima d’avere gli animali, i Comanche erano già un popolo di viaggiatori e così gli Shoshone, in virtù dello stretto legame che li univa ai Comanche, ebbero cavalli prima di molte altre tribù più a sud. Poi, a loro volta, anche gli Shoshone vendettero alcuni esemplari ad altre tribù vicine e un considerevole numero d’animali fu rubato loro dai Piedi Neri.
I Comanche al massimo della loro potenza possedevano diverse migliaia di cavalli. Nel 1850 il capitano Marcy notò che un guerriero Comanche aveva tra 50 e 100 esemplari, mentre un capo poteva arrivare a possederne un migliaio. Per fare un confronto: un Sioux che possedeva almeno trenta esemplari veniva considerato molto ricco, mentre un Cheyenne poteva averne venti e un Cree cinque o sei. Normalmente, più una tribù viveva a nord rispetto ai Comanche, minore era il numero dei cavalli posseduti.
I Comanche accumularono mandrie numerose grazie agli scambi commerciali e all’allevamento.

Dopo aver imparato a cavalcare, gli indiani iniziarono a costruire selle di legno notando che queste potevano essere perfetti supporti per le cinghie da collegare alle slitte. Resi più saldi i traini per proteggere soprattutto i vecchi e i bambini, vi poterono costruire sopra dei telai in rami di salice e cuoio, ricoperti di pelli o coperte per fare ombra. Quando negli spostamenti non venivano usate le slitte, gli indiani impararono rapidamente la tecnica di confezionamento dei bagagli da caricare direttamente sui cavalli. Doppie sacche fatte di tagli rettangolari di pelle erano messe sul dorso dell’animale e legate alle selle con un’asola.
Le donne mettevano spesso queste sacche al centro, sopra la sella e le coprivano con pelle di bisonte ricavando un comodo sedile. Per qualche ragione le borse da sella cominciarono ad essere considerate come un bagaglio femminile, mentre gli uomini raramente le caricavano sulla loro cavalcatura. Le donne si occupavano anche del trasporto dei contenitori dove gli indiani usavano conservare cibo e abiti. Ai tempi dei cani da traino, molte tribù usavano delle coperture di cuoio per proteggere le cose più preziose.
Con l’arrivo del cavallo, le sacche diventarono molto più grandi: grossi borsoni di cuoio o pelle di bisonte a forma di busta, lunghi tra i sessanta e i novanta centimetri e larghi cinquanta. Ben chiusi, potevano essere tolti senza fatica dalle slitte e montati sulle selle o sul dorso del cavallo.

Prima dell’arrivo dei cavalli, le tribù delle pianure già conoscevano l’uso di cinghie di cuoio e staffe, che adattarono poi a briglie, pastoie, lacci e cavezze per i cavalli. Alcune tribù trasformavano anche i peli di bisonte in funi con buoni risultati. Le selle arrivarono molto più tardi. Le prime erano semplici sacche di pelle d’animale, imbottite di paglia e venivano legate ai cavalli con lacci di cuoio. Gradualmente diventarono sempre più elaborate, con staffe ed ornamenti.
Daniel Harmon, un mercante di pellicce, descrisse così una sella in uso nelle pianure del Nord agli inizi dell’800: «A contatto con la schiena del cavallo mettevano una pelle di bisonte, su questa appoggiavano un’imbottitura, da cui pendevano due staffe anch’esse di legno coperte con pelle di testicoli di bisonte».
Fu probabilmente un frate francescano, al seguito di quel gruppo d’esploratori spagnoli, il primo bianco che si rese conto dell’importanza economica del bisonte per gli indiani. «Con la pelle di bisonte facevano case, vestiti, scarpe e corde (talvolta anche con la lana di bisonte); dalle budella ottenevano matasse di fili che impiegavano per l’abbigliamento e la casa; con le ossa realizzavano utensili vari; il letame lo usavano come legname, visto che nelle pianure di legna non ce n’era molta; gli stomaci diventavano contenitori o borracce per l’acqua. Ne mangiavano la carne arrostita o cruda, strappata a mani nude o con un coltello. Ne ingoiavano grossi bocconi mezzi masticati, mangiavano anche il grasso senza cuocerlo, e quando non avevano altro cibo a disposizione ne bevevano il sangue».
Ma non è tutto. Con le ossa realizzavano sostegni per la sella e coltelli; con i nervi, straccali, lacci e colla; con le vesciche, tasche e contenitori per medicine; dalle corna ottenevano cucchiai, polvere di corno e tazze; dal pelo, corde, imbottitura per le selle e ornamenti per il capo; dalla coda ricavavano fruste e spazzole e dalla pelle tutta una serie d’utensili, attrezzature per il cavallo, vestiti ed equipaggiamenti da battaglia.

Prima dell’arrivo del cavallo, la caccia al bisonte era veramente difficile e faticosa ma, con il miglioramento delle attrezzature per il cavallo e l’introduzione delle armi da fuoco, per le tribù delle pianure, la ricerca del cibo diventò una pratica organizzata.
La caccia individuale venne scoraggiata e, da alcune tribù, addirittura proibita perché un cacciatore poteva uccidere al massimo due o tre animali; spaventava però l’intera mandria di bisonti, che così fuggiva costringendo l’intera tribù a spostare l’accampamento. Quando le guide avvistavano una mandria nelle vicinanze, i capi tribù si riunivano per decidere quale tecnica usare e quando dare inizio alla caccia.
Di norma ciascun cacciatore portava con se due cavalli, cavalcando il più lento e conservando il più veloce per la caccia. Dopo la caccia, il cavallo montato durante il viaggio di andata veniva usato come animale da soma per trasportare la carne.
Quando i cacciatori si avvicinavano alla mandria, erano prese precise precauzioni per non spaventare gli animali. L’attacco era sempre sferrato controvento affinché gli animali non percepissero l’odore dei cacciatori e, dov’era possibile, colline, canyon o altre formazioni naturali venivano usate come riparo. Arrivati abbastanza vicino da poter caricare la mandria, i cacciatori si spogliavano, rimanendo in pantaloni e mocassini, si mettevano in sella ai loro cavalli più veloci, si disponevano a formare una fila continua e, al segnale del loro capo, si sparpagliavano per la pianura alla caccia della loro prima preda. Alcuni cacciatori modificarono le armi dei bianchi per renderle adatte alla caccia al bisonte, altri invece preferirono continuare ad utilizzare arco e frecce. «Bastava una sola freccia per stendere a terra un bisonte»: miravano sotto la spalla e scoccavano le frecce con una forza tale da trapassare i polmoni dell’animale. Di solito, dopo la caccia c’era una gran festa. Se gli animali erano stati uccisi molto lontano dal villaggio, le tende venivano spostate più vicino al campo di caccia; altrimenti anche le donne, i bambini e gli anziani collaboravano alla macellazione degli animali. Verso sera, si accendevano enormi fuochi per cucinare i pezzi di carne migliori: teste, lingue e costole.
Feste di questo genere potevano durare tre giorni, ma anche durante i festeggiamenti si faceva comunque attenzione a non compiere sprechi. La pelle era strappata dalle carcasse, la carne fatta a brandelli ed essiccata; niente veniva buttato e quando dopo una festa una tribù spostava il suo accampamento, ben poco restava ai coyote e ai lupi.
Come il cavallo, il bisonte entrò nella mitologia e nella religione indiana, diventando un animale sacro. Quasi ogni cerimonia importante includeva alcuni simboli che richiamavano quell’animale.
La Danza del Sole avveniva attorno a un’effigie di bisonte con danzatori che trascinavano teschi di bisonte legati ad aste a raggiera attorno ai loro corpi. Inoltre, il pelo del bisonte era d’estrema importanza nella preparazione di medicamenti vari. Infine, senza l’aiuto dello spirito di un bisonte, nessun cacciatore aveva possibilità di aver successo nella caccia o in guerra.
I Teton, di cui faceva parte più della metà dell’intera tribù dei Sioux, furono i primi ad abbandonare le loro case per stabilirsi nelle pianure e vivere in tende fatte di pelle di bisonte. di

I preparativi per la cattura dei cavalli selvaggi, che spesso diventava una vera e propria battaglia tra cacciatori e prede, erano più complicati di quelli che precedevano la caccia al bisonte.
I cacciatori erano in gran parte giovani, tra i diciotto e i ventitre anni, desiderosi di catturare qualche esemplare per migliorare il loro status all’interno della tribù. Talvolta chiedevano a un cacciatore più anziano ed esperto di guidarli. Di solito, la notte prima di una battuta i membri del gruppo si riunivano per cantare accompagnati dal suono di un tamburo e spesso questi riti attiravano altri giovani che poi decidevano di unirsi alla spedizione, se era ancora aperta a nuove adesioni.
I gruppi di caccia erano composti da un massimo di dodici persone, tranne quando si trattava di rubare un’intera scuderia di cavalli agli indiani nemici: in quei casi partecipavano in più di cinquanta e la caccia finiva per diventare uno scontro tra tribù.
Un’attrezzatura per il cavallo che gli indiani delle pianure inventarono fu la maschera. Nel 1806, Alexander Henry descrisse le maschere che vide sui cavalli d’alcuni guerrieri Cheyenne: «Erano maschere piuttosto singolari, a forma di testa di bisonte o di cervo rosso, con corna, bocca, narici e persino gli occhi cuciti con stoffa rossa. Simili ornamenti conferivano loro un’aria molto battagliera». Anche i Piedi Neri e i Crow produssero maschere piuttosto elaborate con corna, penne e piume colorate.
Soltanto negli anni Ottanta dell’Ottocento Frederic Remington vide una maschera per pony realizzata dai Piedi Neri: «Bellissima, in panno rosso, con la testa decorata con rifiniture d’ottone, foglie d’argento e piume».
Queste maschere per i cavalli erano in parte ispirate alle armature dei cavalli spagnoli, ma soprattutto a quella componente magica che, secondo le tribù indiane, gli animali portavano con sé: i cavalli, infatti, diventarono ben presto i protagonisti della mitologia tribale, perché considerati esseri sovrannaturali. I costumi con cui venivano ornati ed i colori avevano significati simbolici e anche il colore del manto di un cavallo e le caratteristiche secondarie assumevano significati molto importanti. Alcune tribù preferivano i cavalli bianchi, altre quelli neri, altre ancora chiari o a chiazze.
Spesso il manto veniva dipinto con colori sgargianti, oppure pezzi di panno coloratissimi venivano attaccati al manto, alla coda, alla criniera o alla maschera.
Poiché erano considerati sacri, proprio come il mais era sacro per le tribù di agricoltori, i cavalli entrarono a far parte delle religioni tribali.
Tale credenza rimase cosi radicata che anche dopo la conversione al cristianesimo, gli indiani continuarono a dipingere cavalli che volano verso il Paradiso sulle pareti delle loro chiese.
Uno degli amuleti magici che veniva più frequentemente portato con sé dagli sciamani, era un feticcio di cavallo; poteva essere un ciuffo di criniera o una piccola pietra di forma equina che si credeva fornisse forza e protezione.
Molto prima dell’arrivo dei coloni bianchi, gli indiani sapevano già quali piante potevano essere mortali per alcuni animali.
Gli sciamani più saggi erano delle enciclopedie ambulanti, ricche di nozioni mediche – basate sulla botanica e tramandate oralmente -, con cui riuscivano a guarire cavalli malati o feriti.
I Teton furono i primi della tribù Sioux a diventare proprietari di cavalli e i migliori cavalieri delle pianure.
Quando gli Shoshone entrarono in possesso dei cavalli dai loro cugini Comanche, i Crow e i Piedi Neri iniziarono a derubarli. I Crow, che erano in meno di cinquemila, non potevano competere con la forza dei vicini Piedi Neri, ma riuscirono in ogni modo ad assicurarsi parecchi cavalli. Nessun indiano teneva ai cavalli più dei Piedi Neri, capaci di percorrere diversi chilometri di strada per sottrarre i migliori esemplari ad una tribù. Nessuno aveva esemplari ed equipaggiamenti migliori dei loro.
Per assicurarsi il buon esito di un furto di cavalli o di una battaglia, i membri del gruppo si portavano appresso particolari oggetti portafortuna. I Cheyenne credevano nei poteri delle penne dell’aquila calva o del falco blu, perché erano gli animali più forti delle Pianure. Il vecchio capo Cheyenne Vortice di Vento, era convinto che il suo successo come guerriero fosse merito delle penne di falco che portava addosso e, una volta, uscì illeso da una raffica di colpi perché i proiettili avevano colpito le piume invece del suo corpo.
Di ritorno all’accampamento, coloro che erano riusciti a portare a termine il colpo venivano accolti con urla e canti di gioia.
Subito dopo aveva inizio la distribuzione dei cavalli conquistati: certamente un giovane corteggiatore ne avrebbe portato uno in omaggio al padre dell’amata; altri venivano dati agli sciamani, alle famiglie povere o alle vedove. Infine, al suono dei tamburi, avevano inizio i festeggiamenti, che potevano durare anche tutta la notte. Le celebrazioni per la vittoria in una battaglia potevano invece durare addirittura per due giorni e due notti.

I tre eventi più importanti nella vita degli indiani delle pianure erano la caccia al bisonte, la cattura dei cavalli e la Danza del Sole. Negli intervalli tra questi eventi, la vita scorreva alternando momenti di maggiore o minore attività e a volte anche d’inerzia.

La Danza del Sole veniva praticata quasi esclusivamente dagli indiani delle pianure e variava a seconda del,ceppo linguistico, che poteva essere quello dei Sioux, dei Caddi; degli Algonchini o degli Shoshone. Si trattava di una cerimonia a cadenza annuale, che aveva luogo nella tarda primavera o all’inizio dell’estate, in cui abbondavano i simboli religiosi che rappresentavano la rinascita della tribù.
I preparativi duravano circa quattro giorni: i festeggiamenti, che includevano danze, veglie funebri, digiuni, auto-torture e visioni rivelatrici, ne duravano altri quattro. Una delle poche spiegazioni della Danza del Sole giunte fino a noi, è quella di un indiano delle pianure nostro contemporaneo, George Bushotter, un Sioux Teton che fece anche alcuni disegni che ritraevano i momenti salienti delle celebrazioni. Un nome usato dai Teton per descrivere la danza era: «Quelli che ballano guardando il sole». I preparativi per la festa alla quale erano invitate anche le tribù vicine iniziavano in primavera.
«Per prima cosa le tribù invitate arrivavano al campo» spiega Bushotter; «Ciascuna si accampava per conto proprio. Anche se alcune tribù erano storicamente nemiche, durante le Danze del Sole sospendevano le rivalità, si facevano visita, si stringevano la mano e formavano alleanze, trascorrendo alcune settimane in questo clima d’armonia.»
Un’enorme folla si raccolse presso Little Big Horn nel 1876, dopo una Danza del Sole durante la quale Toro Seduto, danzando «rivolto verso il sole», ebbe la visione di centinaia di soldati vestiti con abiti blu che cadevano dal cielo direttamente sugli accampamenti indiani. Quando i Sioux ed i loro vicini si riunirono per la Danza del Sole, misero le loro tende in circolo e passarono i primi due giorni a preparare il terreno. «Il terzo giorno,» disse Bushotter «alcuni uomini decisero di andare alla ricerca dell’albero del mistero per realizzare il palo che doveva essere piantato verso il sole. » (i Sisseton e i Wahpeton, come d’abitudine, inviarono due giovani ragazzi). I guerrieri che partecipavano alla ricerca della pianta, indossavano le loro più alte uniformi di guerra.
Il quarto giorno al centro di un cerchio venne scavata la buca per il palo, che fu poi ricoperta con erba tenera, salvia selvatica e un teschio di bisonte. Quello stesso giorno, sul margine orientale del cerchio, venne piantata una tenda per coloro che avevano fatto il voto di partecipare alla danza e sul retro venne disposta una fila di teschi di bisonte: uno per ogni partecipante. All’interno della tenda i partecipanti si purificavano con il fumo delle foglie e dell’erba tenera, si dipingevano i corpi e si preparavano per l’ardua prova.
Il quinto giorno, un nutrito gruppo d’uomini e donne d’ogni età si recò presso l’albero prescelto, ridendo, cantando e gridando lungo la strada. Giunti nei pressi dell’albero, però, iniziarono a parlare sottovoce, alcuni si zittirono. Dopo una serie di cerimonie durante le quali gli addetti al taglio dell’albero raccontarono le loro esperienze passate, uomini e donne insieme iniziarono ad abbattere la pianta. Tagliato l’albero, il tronco venne ripulito di tutti i rami, fatta eccezione per quelli più vicini alla cima e trasportato fino al campo, dove fu innalzato dagli uomini più importanti della tribù.
Era diventato il palo che raffigurava il sole. Ai rami rimasti attaccarono dei sacchetti medicinali, un telo scarlatto e due sagome ritagliate dalla pelle del bisonte, una a forma di bisonte e l’altra a forma d’uomo; ciascuna delle due figure era dotata di un enorme fallo che doveva rappresentare la vita e la fertilità della stagione estiva. Inoltre, saldamente attaccati alla cima del palo, una dozzina di lacci di cuoio lunghi fino a terra pendevano per i giovani indiani che dovevano compiere i loro voti e che erano in attesa dentro la tenda.
Attorno al palo, furono piantati paletti di legno a formare due cerchi concentrici; quello esterno venne poi coperto con rami e frasche, mentre quello interno fu lasciato aperto per permettere ai danzatori di vedere il sole e la luna.
Alla prima cerimonia parteciparono i capi e gli anziani, marciando attorno al palo e rivolgendo gesti drammatici alle figure poste sulla cima del palo. Un banditore ufficiale della tribù diede poi inizio alle donazioni, invitando tutti a porgere doni alle vedove, agli orfani e alle famiglie povere.
I giovani liberarono qualche pony all’interno dell’anello e alla base del palo vennero ammucchiate coperte, abiti, ornamenti e gioielli di modo che i bisognosi potessero liberamente prendere ciò che serviva loro.
Terminato il momento delle donazioni, ebbe inizio la parata dei guerrieri a cavallo che girarono ripetutamente attorno al palo, sparando a terra finché tutta l’aria non fu piena del fumo della polvere da sparo. La giornata si concluse con giovani uomini e donne che, cantando, cavalcavano a coppie attorno al palo. Tutto questo durò finché il sole non fu tramontato.
I restanti giorni della Danza del Sole erano tradizionalmente dedicati ai giovani che dovevano sottoporsi a torture per far fede ai loro voti. Dopo rituali che variavano da tribù a tribù, circa una dozzina di partecipanti coperti solo da un panno sulle parti intime, si presentavano al cospetto degli sciamani che incidevano i loro petti e v’infilavano spilloni di legno che perforavano i loro muscoli pettorali. Gli spilloni venivano legati alle grosse briglie di pelle di animale che pendevano dalla cima del palo.
Così imbrigliati i danzatori si allontanavano finché il loro laccio non si staccava. A questo punto, con le braccia alzate al cielo e in bocca un fischietto d’osso d’aquila, i danzatori iniziavano a ballare rivolti verso il sole. Il fischio prodotto con l’osso dell’aquila simboleggiava il respiro vitale e il canto dell’uccello della tempesta, ossia quell’uccello misterioso che lanciava frecce dal cielo sotto forma di lampi di luce.
Persistenti rulli di tamburi accompagnavano i danzatori mentre tiravano i lacci finché le ferite non iniziavano a sanguinare. A quel punto i danzatori si liberavano dai lacci facendo leva con il peso del loro corpo e si ferivano. Quindi gli sciamani li accompagnavano a medicarsi nella tenda, avvolti nelle coperte. Una variante della cerimonia prevedeva il sacrificio dei muscoli dorsali oltre che di quelli frontali. Talvolta agli spilloni veniva legato un teschio di bisonte il cui peso provocava dolore e ferite sin dall’inizio della danza.
Alla fine della cerimonia, coloro che avevano fatto voto di digiuno riprendevano a cibarsi, le tende venivano smantellate, i visitatori ripartivano e l’accampamento veniva disfatto. Restava solo il palo sacro finché sole, pioggia e vento non lo abbattevano.
Gli spettatori bianchi erano molto sorpresi della partecipazione delle donne alla Danza del Sole, perché credevano che durante le cerimonie più importanti venissero tenute in disparte. Secondo George Bushotter, le donne non solo assistevano alle cerimonie collaborando al taglio dell’albero del mistero”, ma aiutavano anche i danzatori nelle loro prove e talvolta partecipavano loro stesse alla danza.
«La sofferenza della donna è pari a quella dell’uomo anche se la donna non si ferisce. Durante la cerimonia, le donne indossano una gonna di pelle di daino e portano i capelli sciolti sulla schiena.»
Le donne indiane che vivevano nelle pianure non erano schiave asservite all’uomo come vennero spesso descritte nel XIX secolo: avevano i loro compiti proprio come gli uomini. L’organizzazione della società indiana prevedeva la divisione tra uomini e donne dei lavori necessari alla sopravvivenza in una società primitiva. La principale responsabilità dell’uomo era quella di proteggere le donne fertili e i bambini da guerre, carestie, tempeste, secondo il principio per cui, se moriva il seme della tribù, anche la tribù sarebbe morta.

Dal momento che i bambini crescevano insieme ai cavalli ed erano sin da neonati abituati a cavalcarli in compagnia delle madri, imparavano a cavalcare e a camminare nello stesso tempo.
Una delle prime responsabilità che veniva assegnata a un ragazzino era quella di badare ai cavalli. «Questo era il suo compito speciale» racconta George Grinnell «e doveva guardarli costantemente, non perderli mai di vista e controllare che non rimanessero mai senza acqua.» Il padre o un anziano del villaggio doveva istruirlo sulle tecniche di caccia al bisonte: come avvicinare gli animali, come puntarli e come colpirli nei punti più vulnerabili.
Compiuti dieci anni, ai ragazzini era permesso di partecipare alle battute di caccia e in onore dei ragazzi che riuscivano a catturare qualche animale, veniva organizzata una festa.